Questione ebraica e socialismo reale

recensioni

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Autore: AA. VV.
Pagine: 130
Data di pubblicazione: 2011
Collana: Gladio e Martello
Prezzo: 12.00 euri
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La collana Gladio e Martello rappresenta l’ultima novità editoriale sfornata dalle Edizioni All’Insegna del Veltro di Parma. Curato dal giovane Stefano Bonilauri, questo catalogo, giunto ormai alla sua quarta pubblicazione, si propone sin dai suoi primi intenti di costituire un punto di riferimento nella divulgazione di testi e saggi storico-culturali capaci di approfondire gli studi nella zona storico-teorica di “penombra” stanziata tra i socialismi (ivi compreso quella marxista) e le idee nazionali.  Non ci si deve dunque sorprendere se in un contesto ideologico e culturale come quello italiano, e più in generale occidentale, lo spazio di manovra per certe ricerche è sicuramente denso di potenziali insidie e di possibili intimidazioni. D’altronde per superare l’ormai declinante dimensione estetica dei vari culti della militanza politica occidentale è necessario ripristinare l’analisi e lo studio al centro del dibattito e indubbiamente questo Questione Ebraica e Socialismo Reale, sottoposto all’attenzione del nostro sito, costituisce una pubblicazione in netta controtendenza rispetto a tutte le classiche vulgate della ricostruzione storica imperanti in Europa. Al di fuori di facili schematizzazioni e di semplificazioni in cerca di frettolosi consensi, il testo rispolvera le riflessioni dello studioso sovietico Trofim Korne’evic Kichko, autore di un furioso ma documentato saggio anti-religioso, intitolato Giudaismo senza abbellimenti, che mette in luce la pericolosità dell’ebraismo sul piano politico, originariamente pubblicato in Unione Sovietica nel 1963 col patrocinio dell’Accademia delle Scienze della Repubblica Socialista Sovietica dell’Ucraina. Già all’epoca fu in grado di scatenare una sconcertata reazione in Occidente, anche all’interno di diversi partiti comunisti, tra cui quello francese, quello svedese, quello canadese e quello danese. In tutto il mondo, soprattutto tra gli ambienti politici della sinistra, le richieste di chiarimenti all’Unione Sovietica si fecero pressanti e sempre più serie: la questione non era di poco conto, poiché a meno di venti anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, un’accademia del più grande paese socialista del mondo dava alle stampe un testo dai contenuti pesantemente anti-ebraici. Probabilmente, in Occidente, poco si conosceva del complesso e difficile rapporto tra le popolazioni indigene di origine slava e le comunità ebraiche askenazite ivi insediatesi nei rispettivi Paesi dell’Est. In generale sembrava non essere adeguatamente compreso come il conflitto che qui in Occidente è passato alla storia quale Seconda Guerra Mondiale, dall’altra parte della Cortina di Ferro era ormai celebrato col nome di “Grande Guerra Patriottica”, ad indicare un atroce conflitto nel quale ben 26 milioni di sovietici, tra militari e civili, persero la vita, e che, perciò, se un sacrificio andava commemorato, di certo era quello del proprio popolo, senza dover chinare il capo in alcun modo nei confronti di ambienti politici e culturali occidentali, pronti a volgere nuovamente le spalle alla Russia, indicandola come il nuovo nemico della libertà. Dalla prefazione dello stesso curatore, leggiamo come in un articolo pubblicato da L’Unità il 30 marzo del 1964, apertamente si sosteneva che “Stalin, soprattutto nei suoi ultimi anni, diffuse un certo spirito nazionalista e perciò antisemita tra il popolo in genere ma anche – e forse questo conta di più – tra gl’intellettuali, i funzionari di governo ed anche quelli del Partito Comunista”. Tuttavia non c’è da stupirsi se Kichko, nel tipico stile sovietico, affronta la complessa problematica della questione ebraica in base ai criteri e al linguaggio del marxismo-leninismo: fu già Karl Marx – di origini ebraiche ma tutt’oggi considerato da diversi esponenti del mondo ebraico come un “pericoloso antisemita” –  nel suo La questione ebraica del 1848, a suscitare un vespaio di polemiche proprio per aver individuato i semi della trasformazione borghese e mercantile della società europea nella fase di mondanizzazione della religione ebraica operata dalla secolarizzazione del cristianesimo. Venne poi la polemica in merito al Bund, il sindacato ebraico polacco, accusato per anni dai bolscevichi di “scissionismo” e di “sciovinismo”, fino al periodo staliniano, ancor oggi giudicato in modo controverso dagli storici, divisi tra sostenitori delle tesi estreme sullo Stalin “antisemita” e “ritrovato ortodosso” (Louis Rapaport e Jonathan Brent) e più algidi osservatori che preferiscono elidere gli aspetti religiosi e ideologici dalla campagna anti-sionista ed anti-cosmopolita inaugurata in Unione Sovietica tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta (Domenico Losurdo). Tuttavia, dopo l’opuscolo di Kichko, il testo prosegue con due saggi di Claudio Veltri che ampliano la visuale a tutto il secondo Novecento, fornendo una lettura molto precisa sul complesso e spesso ostile rapporto tra le dirigenze socialiste della Polonia e della Cecoslovacchia e le rispettive comunità ebraiche: dal ruolo mai chiarito di Gomulka alla “condanna” di Jaruzelski, bollato da molti ebrei come un pericoloso “nazional-comunista”, dal processo di Praga contro Rudolf Slansky, accusato come punta di diamante del complotto “sionista e cosmopolita” architettato per uccidere il presidente della Repubblica Socialista della Cecoslovacchia, il delfino stalinista Klement Gottwald, fino alle implicazioni del comitato ebraico Joint nell’organizzazione della Primavera di Praga del 1968. Vignette satiriche sovietiche e citazioni da importanti pubblicazioni dell’epoca, ci consegnano infine un ritratto che appesantisce la mole del materiale di propaganda anti-sionista diffuso in Unione Sovietica negli anni Sessanta e Settanta. Molto utile come supporto storico per la preziosa documentazione fornita, questo testo potrà contribuire ad aprire un serio dibattito sul ruolo del sionismo (pur nelle sue varie e diverse forme interne) nel campo della politica internazionale, senza scadere tanto nel becero complottismo quanto nelle ricostruzioni dogmatiche tipiche dell’isteria collettiva occidentale.

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