D’Annunzio, la massoneria e le barricate di Parma
FIUME E PARMA
Nell’estate 1922, il capitolo “possibilità di una rivoluzione fascista con D’Annunzio” era chiuso. Il mito dannunziano, pur non del tutto tramontato, aveva subito un notevole processo di invecchiamento. Ma la propensione per la solitudine, tipica in D’Annunzio dai giorni della Versiliana a quelli della Capponcina, a quelli delle Lande, a quelli della casetta rossa veneziana, assegnava un valore perenne all’ignoto del quale ogni sua decisione si ovattava. La sua irraggiungibilità si trasformava quasi sempre nell’immaginazione di una più che fatale indispensabilità della piazza. I miei luogotenenti, in maggioranza, non si rendevano conto di una realtà: non era tanto necessario avere D’Annunzio alleato, quanto non averlo nemico. Noi avevamo, netta e continua, la certezza che non era nell’interesse del poeta ostacolare il naturale corso della nostra rivoluzione. I capitani del sud, i capitani del nord, i luogotenenti di Roma, Igliori, Giuriati, erano della sua covata.
Gli arditi che difendevano “Il Popolo d’Italia”, unica centrale della rivoluzione, avevano militato nelle sue disperate compagnie corsare. D’Annunzio, ove avesse voluto sconfessarci, avrebbe avuto contro di sé tutti i nostri commilitoni. Egli teneva – e ciò era più che giusto – a conservare a Fiume il primato dell’intangibilità nazionale. I nostri avversari avevano anch’essi una loro città contro la cui comunalistica indipendenza nulla aveva potuto lo Stato nell’aprile, nel maggio, nel giugno 1908: Parma. Contro Parma, nulla avevano potuto le sperimentate milizie di Balbo in questo stesso 1922. Siamo d’accordo, l’orologiaio mutilato di guerra e decorato al valore Guido Picelli non era D’Annunzio. Ma se D’Annunzio avesse avuto ai propri ordini, a Fiume, anche le formazioni rivoluzionarie di Picelli, Giolitti non avrebbe vinto la guerra contro il poeta. Alceste De Ambris, vecchio capo della città sindacalista, non se lo era mai nascosto, mai lo aveva nascosto al Comandante.
Il Comandante era amareggiato per il confronto rivoluzionario tra Fiume e Parma. Parma aveva ricevuto l’aiuto pieno del governo nel corso dell’assalto datole da Italo Balbo. Fiume aveva avuto contro di sé – totalmente – le forze dello Stato. Il Comandante non voleva naturalmente che Parma, sindacalrivoluzionaria ieri e comunista oggi, venisse posta a ferro e fuoco da Balbo, ma capiva che il ripetersi della difesa delle istituzioni sovversive in altre città, così come era avvenuto a Parma, avrebbe ricondotto il Paese all’eversione che lo aveva devastato tra il 1919 e il 1921. Se l’esempio di Parma fosse stato seguito altrove, e altrove avesse conseguito successo, sarebbe stato rimesso in discussione il diritto dei reduci a farsi responsabili della vita italiana ricondotta all’ordine in ogni settore della pubblica attività. Il Comandante era troppo fine politico per non valutare i pericoli che il rivoluzionarismo tipo Parma avrebbe introdotto in una situazione nazionale la cui incertezza poteva essere annullata soltanto dalla rivoluzione che stavamo conducendo a maturazione. Di qui, il sostanziale favore che il Comandante non poteva non riservarci.
De Ambris – che non condivideva le nostre idee politiche e aveva rotto il fraterno legame che lo aveva alleato nel 1914 e nel 1915 alla nostra lotta per l’intervento – aveva in quell’estate 1922 detto al Comandante che porsi contro di noi, o, meglio, permettere a talune frange del legionarismo di osteggiarci sarebbe stato esiziale per gli interessi del Paese. Il Comandante si comportò correttamente nei nostri riguardi. Che cosa avrebbe potuto fare di diverso? Sollecitato da Nitti a un’intesa con la democrazia in qualche modo ancora giolittiana, aveva risposto eludendo l’invito. Taluno pensò, e disse, che D’Annunzio era amareggiato per il nostro successo. Niente di più falso. La generosità è sempre stata la prima natura del poeta soldato. Uomo per insurrezioni, lui, lo ripetiamo. Non capo utilizzabile per rendere concrete le rivoluzioni.
(Benito Mussolini in: Yvon De Begnac, Taccuini mussoliniani, a cura di Francesco Perfetti, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 99-101)